Intervista ad Eleonora de Conciliis

Attendendo la pubblicazione del n.3, ed in appendice al n.2 “Alice e lo specchio”, La Deleuziana ha intervistato Eleonora de Conciliis. Dopo il breve video di presentazione, ecco il testo completo dell’intervista.

 

LD_Il tuo articolo per La Deleuziana n. 2, ripercorrendo Sproni di Derrida e in particolare il discorso di Nietzsche sulla donna, solleva la questione del rapporto tra “donna” e “verità”. Come vedi questo discorso in relazione a quello foucaultiano sui “regimi di verità”, ossia, ti pare che ci possa essere un nesso tra la questione femminile e quella della veridizione, o della costrizione alla verità, che oggi sembra essere incarnata, come ha scritto Antoinette Rouvroy, dalla “governamentalità algoritmica”, ossia dal controllo computazionale di dati e comportamenti?

EdC_La raffinatissima decostruzione derridiana della misoginia di Nietzsche, nel lontano 1972, ha il sapore di un doppio, clamoroso rovesciamento, perché Derrida legge Nietzsche come ‘donna’, e, nell’epoca del trionfo politico del femminismo, denuncia il fatto che esso mancherebbe di ‘stile’. Negli stessi anni, Foucault (che com’è noto non ebbe un buon rapporto con Derrida) avvia una colossale genealogia nietzscheana della verità, una sua storia ‘esterna’ e quindi per così dire ‘fuori testo’ – cosa che il decostruzionismo ritiene impossibile – che parte dal suo primo corso al Collège de France (1970) e arriva fino alla tematizzazione della parrhesia negli ultimi corsi. Per Foucault (che intreccia il discorsivo e il non discorsivo o, per così dire, l’evento e la traccia), l’obbligo di dire la verità su di sé, in Occidente, ha prodotto un soggetto assoggettato, una ‘bestia da confessione’ destinalmente imperfetta che si costituisce come tale a partire dall’aleturgia, cioè dalla pratica o evento prima politico e poi rituale del dire-il-vero. Questo regime di veridizione, che a partire dal cristianesimo diventa un regime di direzione, un governo pastorale attraverso la verità ‘confessata’ a chi ha il potere o a chi lo rappresenta – all’Altro –, investe sia la sessualità che la donna. Il soggetto-donna viene costituito dai dispositivi di veridizione come essere doppiamente inferiore e imperfetto (rispetto all’uomo): la donna è inchiodata all’obbligo di riconoscere la sua verità-identità di donna davanti all’Altro, e il dire la verità su di sé assume i caratteri di un evento anche corporeo di sottomissione all’ordine del discorso maschile. Ma, a differenza di ciò che per esempio ha fatto Bourdieu con la sua sociologia della violenza simbolica applicata alla femminilità (si pensi al suo famoso testo Il dominio maschile), Foucault per così dire ‘riassorbe’ la donna nella sua incompiuta storia della sessualità e nella sua genealogia dei regimi di veridizione, tematizzandola in modo piuttosto indiretto – perché gli interessano i dispositivi disciplinari e più in generale identitari, i dispositivi di potere-sapere, tra cui ad esempio il manicomio. Mentre dunque Derrida tematizza il modo ‘scritturale’ – stilistico, intratestuale – in cui la donna sfuggirebbe alla castrazione, e, implicitamente, all’impianto teorico fallogocentrico della psicoanalisi, in Foucault la figura femminile (coeva di Nietzsche) che, apparentemente assecondandolo, sfuggirebbe al regime di verità che preannuncia la psicoanalisi – cioè alla psichiatria

– è quella dell’isterica. Obbedendo all’ingiunzione del neurologo Charcot con una compiacente panoplia di sintomi, le isteriche tendono una trappola al potere psichiatrico, ed esercitano così una sorta di contro-potere: oppongono una resistenza dal basso rispetto alle pratiche che le rendono ‘malate’. Mentre nella questione derridiana dello stile, anzi degli stili, il corpo della donna rappresenta una superficie di scrittura disseminante che come tale si differenzia (nel senso della différance), ossia sfugge al logos della presenza fallica, nell’analisi genealogica della psicoanalisi condotta nel corso sul potere psichiatrico (1973-74), Foucault individua il corpo femminile come luogo ‘teatrale’ di sintomi che si sottraggono alla presa della verità, alla maîtrise del medico – sintomi che per così dire si rifiutano di essere dei segni interpretabili: l’isterica dice la verità mentendo, e viceversa, proprio perché è il suo corpo a parlare. Tutto ciò per dire che il corpo della donna è il cuore della questione femminile intesa non tanto come differenza di genere, quanto come questione di una verità impossedibile – di una verità come ‘non-tutta’, per dirla con Lacan. Ebbene, oggi questo contro-potere della donna – un potere tragico, sia ben chiaro, che fa pendant col suo potere-piacere di seduzione, di sviamento: un potere ‘minore’, un ironico ma doloroso divenire minoritario in cui la menzogna è sostituita dall’artificio nel quadro di un evento rituale, qual è ad esempio quello del sedurre e dell’essere sedotti – questo contro-potere, dicevo, è decisamente ridotto o impedito da un altro corpo che per così dire ha parassitato il corpo femminile: il corpo tecnologico, inteso in due sensi: da un lato come corpo dell’oggetto tecnologico, del gadget (smartphone, tablet, ecc.) che ha colonizzato la vita, non solo femminile, dall’altro come tecnologizzazione del corpo vivente, del Leib, attraverso la chirurgia estetica, le protesi, ecc.; la tecnologia (non solo digitale) sostiene l’aspirazione commerciale di tutti i corpi (non solo di quello femminile) a diventare corpi cyborg, perfetti e indistruttibili – ottusamente fallici – che non debbano assumere su di sé la différance, lo slittamento, la crepa, la ruga, in un infantile esorcismo della pulsione di morte. Da questo punto di vista, la rete ha istituito un nuovo, intemporale e iconico regime di veridizione, in cui il divenire-donna, come processo, non può aver luogo, perché l’obbligo a dire la verità su di sé diventa l’obbligo a esporsi, a mostrare per sempre il (proprio, singolare) corpo tecnologico nel corpo tecnologico (universale, immateriale e generico: il web). Non solo i corpi femminili, ma tutti i corpi individuati come minoritari ma resi minori in senso kantiano, sono governati da un tale regime sempre meno linguistico, o sempre più linguisticamente povero. La Rouvroy ha quindi perfettamente ragione nell’applicare il concetto foucaultiano di governamentalità – un concetto biopolitico – alla rete: la rete è un regime di verità semplificato e solo apparentemente ricco e infinito, un ordine del discorso indifferenziato e non solo per la donna, la cui differenza-differanza sembra anzi completamente riassorbita da questo regime.

LD_Stando alla teoria della Jeune-Fille, la femminilità oggi è ridotta a un “restare ragazzina” più che a un “divenire donna”. Questo implica, a nostro parere, uno scacco della volontà e della decisione, che spesso viene captata da dispositivi, come quello della Jeune-Fille appunto, o come quello del “diritto al matrimonio omosessuale”, ai quali sembra facile (nonché giusto) aderire. Ci pare invece che questi nascondano (neanche troppo bene) un tentativo di assoggettamento e di “normalizzazione” di tutti quelli che Deleuze avrebbe chiamato i “divenire minoritari”, dunque di tutte quelle categorie dalle quali ancora potrebbe arrivare una spinta di singolarità. Ti chiediamo dunque, secondo le tue analisi, qual è a tuo avviso lo stato di salute dei divenire donna oggi?

EdC_La questione del diritto al matrimonio omosessuale, e alla genitorialità omosessuale, mi sembra essere legata a quella che in termini foucaultiani potremmo definire “ri-familizzazione” della biopolitica contemporanea (che in Italia ha assunto negli ultimi anni forme grottesche e quasi medievali). Se per Tiqqun la Jeune-Fille si riproduce – quindi si sposa – solo per restare sul mercato, è perché la ‘famiglia’ funziona come dispositivo di identificazione socialmente valorizzato, ossia come parte integrante dell’imprenditoria del sé. Questo vale anche per gli omosessuali, che non a caso Tiqqun rubrica come soggetti interni alla figura della Jeune-Fille (e del Bloom) e alla sua logica adolescenziale schiacciata sul godimento. La genitorialità all’interno della famiglia nucleare (anche quella cui aspirano le coppie omosessuali) non è insomma un evento ‘deciso’ (in senso forte, heideggeriano), che coinciderebbe col divenire-adulti o col divenire-liberi, ma piuttosto un https://www.acheterviagrafr24.com/viagra-online/ ruolo sociale narcisisticamente investito, dunque conformista. Poiché la singolarità, l’essere singolare, risulta insopportabile, come del resto l’intero processo di soggettivazione – che nella sua tragicità comporta il divenire-altro-da-sé, la perdita, il dolore ma anche lo sforzo, la costruzione, il progetto, insomma la forza –, la Jeune-Fille lo sostituisce con il “restare ragazzina” pur facendo figli – anzi, soprattutto facendo figli. Il che si traduce da un lato in un obbligo sociale e conformista di genitorialità esibita, fallica e consumistica, cui si associa la più o meno inconfessabile percezione dei figli come ‘capitale umano’ su cui investire, dall’altro in una incapacità di svolgere per i propri figli quei ruoli ‘adulti’ di cui essi hanno bisogno, poiché pur essendo genitori si resta eternamente adolescenti – ciò che i lacaniani traducono, ma in una prospettiva spesso conservatrice, nella crisi della funzione simbolica paterna. Se è così, forse oggi il divenire-donna (anche in quanto omosessuali) consisterebbe paradossalmente nel sottrarsi all’obbligo sociale genitoriale – nel restare singolarmente fuori dal dispositivo imprenditoriale della famiglia. Se la famiglia non è ‘naturale’, ma storico-culturale, allora dev’essere oggetto di una transvalutazione proprio da parte di coloro che sono stati storicamente, e nel nostro paese sono tuttora le vittime della concezione ‘naturale’ della famiglia: le donne e gli omosessuali. Questa ‘grande salute’ ha naturalmente un prezzo, ma è anche un modo per incarnare quel po’ di libertà residua che ancora circola nel mondo contemporaneo, e che non è legata ad alcuna categoria o genere, ma anzi, alla negazione di ogni categoria (non dimentichiamo che il significato originario del termine categoria era ‘accusa’, e quindi: riduzione alla verità, obbligo identitario alla confessione di sé) e di ogni genere biologicamente inteso. La negazione prospettica e ironica dell’essenza – anche dell’essenza della femminilità, ad esempio come ‘maternità’ – è del resto, per usare liberamente i termini di Derrida, il tratto precipuo della donna come ‘differanza’.

LD_Nel numero 2 di La Deleuziana nessuno degli autori selezionati o invitati ha proposto un discorso attorno ad una delle figure filosofiche femminili più note ed importanti del secolo scorso: Hannah Arendt. Pensi che la sua analisi dell’ideologia e della tendenza totalitaria possa ancora essere ripresa per diagnosticare due forme ideologiche attuali come quella del marketing e dei big data (di fatto, soprattutto nel caso del marketing, elementi fondamentali nel discorso sulla Jeune-Fille e del suo divenire attraverso gli schermi contemporanei)?

EdC_Hannah Arendt ha incarnato un divenire-donna esemplare in ambito filosofico, ma anche biografico. Il fatto che nessuno/a di noi l’abbia tematizzata è più una sorta di riflesso condizionato dall’urgenza di analizzare il contemporaneo con un nuovo lessico, che il segno di un invecchiamento o di un’arretratezza del suo pensiero. A mio giudizio non è tanto Le origini del totalitarismo a costituire un punto di riferimento ancora valido per analizzare l’attualità, e quindi la crisi di quel femminismo di cui la Arendt resta un’icona, quanto piuttosto La vita della mente. Infatti ad essere profondamente modificata o addirittura impedita dall’assetto ‘totalitario’ di big data e dal controllo acefalo esercitato attraverso di esso (si tratta in effetti di un’irrazionalità simile a quella del totalitarismo) è proprio la lentezza del pensiero, o, in termini derridiani: il suo differire dalla presenza, il suo slittare all’interno (quindi fuori dallo schermo, dalla visibilità oscena che caratterizza la Jeune-Fille). L’“assenza di pensiero” innescata dal web è l’assenza di intimità con sé – l’assenza di quella solitudine feconda che permette di dialogare con se stessi, di far riecheggiare i propri ragionamenti e persino di affrontare i propri fantasmi staccandosi dalla realtà (perché è solo staccandosi rischiosamente dalla realtà che vi si può ritornare per giudicarla e/o affrontarla). Il totalitarismo della iperrealtà telematica impedisce oggi agli uomini (e alle donne) di assumere all’esterno quell’atteggiamento cadaverico – quello “stato di morte apparente” ripreso anche da Peter Sloterdijk – in cui propriamente consiste la vita (interiore) della mente. Se all’uomo, oltre al discorso come agire politico (si pensi a Vita activa), si toglie la capacità di sprofondare dentro di sé e così di far soffiare il ‘vento del pensiero’ (secondo la metafora applicata a Socrate da Senofonte e ripresa da Arendt), allora egli non è in grado di ‘partorire nel bello’ (secondo la metafora usata da Diotima nel Simposio platonico per illustrare la peculiarità della generazione maschile), cioè, al di là dell’idealismo metafisico di Platone, di trasformare il dolore in forza – cioè di affrontare la realtà. Detto ancora in altri termini, la vita e l’opera di Arendt mostrano che

l’unica vera fecondità è quella del pensiero – ed è precisamente questa ad essere isterilita dalla virtualizzazione adolescenziale della Jeune-Fille e più in generale dalla ‘demenza’ del sistema capitalistico, di cui parlano Deleuze e Guattari nell’Anti-Edipo. Oggi il pensiero è assente perché fagocitato dalla furba, rozza, e sempre più analfabeta stupidità del mercato: se pensare significa morire anche solo temporaneamente al mondo, allora oggi non c’è né il tempo cairologico, né la volontà, né il giudizio per pensare (si ricordi la triade kantiana dell’opera incompiuta di Arendt: pensare, volere, giudicare), e coloro che pretendono o fingono di ‘pensare’ al ritmo della rete, di adattare il respiro della meditazione alla velocità performante del web, sono dei conformisti, dei narcisisti o semplicemente dei furbi – nella misura in cui il loro obiettivo autoreferenziale è vendersi, non comprendersi e meno che mai ‘divenire’ altro da sé.

Ma tutto questo, sia chiaro, va detto e scritto nella rete: come non c’è alcuna ascesi da intraprendere per sottrarsi all’azione (poiché, per parafrasare ancora, ma criticamente, Sloterdijk, la verticalità acrobatico-atletica dell’ascesi è solo una riproposizione della vecchia dominanza fallica), così non c’è alcun ‘fuori’ da cui poter diagnosticare la demenza del sistema. Semmai la posizione femminile, in quanto ironicamente priva del fallo – della sua illusoria verticalità – è quella di un ‘dentro’ che scivola ‘sotto’, in un non-luogo infero da cui osserva, in termini leopardiani, “l’infinita vanità del tutto”. La prospettiva scomoda ma spietata di chi è divenuto-donna è quella dello sguardo dal basso, anzi, ‘nel’ basso  – la stessa di Foucault quando scrive Nietzsche, la genealogia, la storia. È la prospettiva di chi si pone al livello del suolo e perciò si sporca le mani – di chi, nel pensare, rischia se stesso.

You May Also Like