Recensione a B. Stiegler – Prendersi Cura

Bernard Stiegler, Prendersi cura. Della gioventù e delle generazioni (trad. e cura di P. Vignola), Orthotes, Napoli-Salerno 2014, pp. 308, euro 18,00

Recensione di Eleonora de Conciliis

Prendersi cura, risalente al 2008, rappresenta il secondo importante testo di Bernard Stiegler tradotto in italiano da Paolo Vignola (che lo ha anche ampiamente introdotto) per i tipi dalla casa editrice Orthotes, dopo Reincantare il mondo (2006), pubblicato nel 2012. Come nel precedente volume, reinterpretando il concetto di phàrmakon prelevato da La farmacia di Platone di Derrida, Stiegler individua nelle tecnologie informatiche e digitali il ‘veleno’ con cui il capitalismo finanziario contemporaneo (ormai totalmente schiacciato sull’imperativo consumistico della crescita e del profitto a breve termine) tende ad asservire, se non a distruggere l’assetto psichico dei singoli e delle collettività, producendo, attraverso la colonizzazione-deformazione dei nostri circuiti neurali, nuove forme di stupidità individuale e sociale nonché di regressione pulsionale; e proprio come nel precedente lavoro, Stiegler propone di utilizzare in chiave omeopatica la stessa tecnologia come ‘rimedio’ per uscire dalla “miseria simbolica” della nostra epoca e ri-produrre attraverso una farmacologia positiva il “valore spirito”, ovvero ‘re-incantare’ un mondo ormai inaridito dal “nichilismo” e incapace di progettare il futuro.

Nel proporre un problematico superamento etico-politico della prospettiva farmacologica e, come vedremo, grammatologica del decostruzionismo, il discorso teorico di Stiegler, che a tratti resta disperatamente apocalittico (come riconosce anche Vignola nell’introduzione), ha tuttavia il merito di denunciare con lucidità, senza ipocrisie o vezzi intellettuali, la gravità della crisi culturale e psicosociale in cui ci troviamo, offrendo inoltre al lettore, per comprendere il disagio della civiltà contemporanea, un efficace lessico che getta le radici, oltre che nel pensiero di Derrida e nella psicoanalisi (dacchè il suo modo di concepire l’apparato psichico e la prima topica appare strettamente freudiano), soprattutto nella fenomenologia di Husserl. Riprendendo infatti le analisi husserliane sul tempo della coscienza, alle “ritenzioni secondarie” (cioè ai ricordi che il soggetto elabora all’interno della psichicità) egli aggiunge le “ritenzioni terziarie” fornite dalle tecnologie della memoria o hypomnémata: dalla scrittura alfabetica ai mass media novecenteschi fino ai pc e ai tablet, l’uomo è in grado di produrre supporti durevoli ed esterni  alla coscienza, che, in quanto dispositivi, riorientano gli stessi processi attentivi e ritenzionali della soggettività.

Da questo punto di vista, potremmo dire che la “grammatizzazione” simbolica e intergenerazionale del mondo, o meglio i processi grammatologici di carattere alfabetico-sequenziale che hanno reso storicamente possibile la coscienza occidentale e il suo rafforzamento psicosociale, rappresentano il presupposto culturale irrinunciabile di quelle “tecnologie dello spirito”capaci di rovesciare e così neutralizzare, secondo Stiegler, gli effetti “tossici”, ossia velenosi, che i dispositivi tecnologici del capitalismo – in una sorta di deriva post-simbolica della grammatizzazione – stanno infliggendo sia agli individui che alle collettività. Con un massiccio ricorso alle nozioni simondoniane di individuazione psichica e collettiva (cfr. G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, a cura di P. Virno, DeriveApprodi, Roma 2006), Stiegler auspica infatti la ricostruzione farmacologica di quei “circuiti di transindividuazione” che alimentano l’intelligenza individuale e sociale, poiché esprimono la facoltà tutta umana di inter-legere, di legare tra loro le generazioni di ‘ascendenti’ e ‘discendenti’, attraverso un utilizzo positivo della grammatizzazione – anche di quella veicolata dalla rete. Se insomma il processo di grammatizzazione coincide con quello di civilizzazione, il problema di Stiegler consiste nell’esigenza-urgenza di invertire la rotta e così ‘curare’, anche pedagogicamente, i limiti di questo processo, che a loro volta coincidono con quelli dell’economia politica capitalistica – la quale, con perverso “menefreghismo”, guadagna sul dilagare istupidente della tecnologia digitale e così ‘avvelena’ la gioventù del XXI secolo.

Sebbene l’illuminismo https://www.viagrasansordonnancefr.com/viagra-naturel/ possa essere letto come un colossale processo di disincanto rispetto al senso religioso del mondo premoderno (si pensi alla Entzauberung weberiana e a un testo apparentemente ignorato da Stiegler: M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992), si tratta di una prospettiva decisamente kantiano-illuministica, che non a caso viene illustrata dall’autore con uno stile chiaro e in certi punti addirittura didascalico: la ‘terapia’ farmacologica, che è anche una terapia filosofica, nella fattispecie platonica, dovrebbe assumersi il compitodi condurre i ‘discendenti’ fuori dello stato di minorità, verso una “maggiorità” che oggi appare tuttavia sempre più lontana e irraggiungibile, vista la condizione di stupidità politica, ignoranza e conformismo gregario indotta dal consumismo mediatico in cui versano gli adulti – condizione efficacemente definita da Stiegler “minorazione delle masse”.

Ciò premesso, si comprende come la lettura del libro non possa lasciare indifferenti coloro che (come la sottoscritta) si occupano di filosofia e/o lavorano nel campo dell’istruzione, in quanto li costringe ancor di più a ‘prendersi cura’, nel duplice senso di ‘preoccuparsi’ dei discenti e di ‘agire’ per il loro bene; li porta insomma a prendere coscienza dei problemi profondi che si nascondono nelle pratiche educative e nella tecnologia digitale che ormai le pervade, e li obbliga a prendere una posizione critica, politica, di fronte a tali problemi. Se in altri termini la volontà di agire sulle giovani generazioni implica la necessità di trovare una terapeutica, una cura adatta alla malattia sociale della contemporaneità, nello spazio concesso da una recensione proverò ad esaminare i punti di forza della proposta stiegleriana, sollevando al tempo stesso alcune obiezioni di carattere teorico e storico-sociologico.

Bisogna innanzitutto sottolineare che, mentre molti

filosofi (tra cui il nostro Giorgio Agamben, al quale non a caso viene dedicato il penultimo capitolo del libro) tendono a demonizzare le nuove tecnologie, ritenendole le principali responsabili della de-soggettivazione individuale e collettiva attraversata dal mondo contemporaneo, Stiegler intende usare in modo ‘intelligente’ i dispositivi informatici per combattere la “battaglia dell’intelligenza”, o meglio per l’intelligenza, cui sono oggi chiamati coloro che si ‘prendono cura’ dei giovani: la loro intelligenza è la vera posta in gioco, e può essere potenziata anziché indebolita dalla grammatizzazione informatica perché c’è una storia dell’intelligenza, ovvero perché l’intelligenza diviene (cfr. p. 84).

Ciò significa porre l’accento sulla nostra plasticità cerebrale, sull’incompiutezza del cervello umano la cui “situazione neotenica” (p. 174) può costituire una chance di auto-costruzione del soggetto ma anche, all’opposto, essere sfruttata per indebolire e inferiorizzare gli individui che crescono nei nuovi ambienti mediali (i cosiddetti nativi digitali), poiché “la sinaptogenesi [viene] profondamente modificata dai media contemporanei” (p. 69), allo stesso modo in cui, nei secoli passati, è stata profondamente modificata dai media alfabetici. Ora, la caratteristica principale dei nuovi media è la iper-stimolazione sensoriale con cui bombardano i cervelli degli utenti: un eccesso di stimoli che provoca quell’incapacità di mantenere la concentrazione, cioè di prestare attenzione cosciente per più di dieci minuti, ben nota a chi lavora nel mondo della scuola ma ormai sempre più diffusa anche tra gli adulti. Nei termini che Stiegler riprende dalla neuroscienziata statunitense Katherine Hayles, la hyper attention del multitasking impedisce la deep attention, l’attenzione profonda, riducendo la capacità introspettiva della coscienza e la rielaborazione critica degli stimoli (che comporta il ‘prendersi tempo’, cioè la riflessione) alla semplice funzione cerebrale dell’arco riflesso pavloviano (l’istantaneo stimolo-risposta). Innescando una sorta di circolo vizioso, la difficoltà a concentrarsi spinge inoltre i ragazzi ad utilizzare stimolanti corticali in occasione dei compiti in classe, e sembra strettamente connessa al disturbo infantile dell’ADHD (attention deficit hyperactivity desorder), che insieme a dilessia e disgrafia colpisce una percentuale sempre più alta di bambini negli Usa e ormai anche in Europa.

Ebbene, di fronte a questi fenomeni che hanno già pesantemente colpito Giappone e Corea del Nord (paesi ossessionati dalla velocità dei ritmi di apprendimento), Stiegler buy levitra 5mg bayer non mostra l’atteggiamento tipico dell’intellettuale europeo ‘di sinistra’; per esempio, egli non ritiene che Bigpharma ‘crei’ artificialmente, oltre che nosograficamente (vedi il famoso DSM V, il manuale diagnostico della psichiatria anglosassone) i disturbi dell’attenzione per poter vendere il Ritalin e gli altri psicofarmaci che finiscono invece coll’aggravarli; per lui tali disturbi sono reali, così come drammaticamente reale gli appare l’infantilizzazione dei genitori, e riconosce anzi senza mezzi termini l’estremo indebolimento della struttura familiare e degli istituti di insegnamento (cfr. p. 141). A differenza di altri intellettuali ‘rassegnati’ che “si auto-cretinizzano” (p. 164) per integrarsi nella nuova, mediocre Halbbidung mediatica (cfr. T.W. Adorno, Teoria della Halbbildung, Il Melangolo, Genova 2010), il filosofo francese individua pasolinianamente (si veda l’evocazione del Vangelo secondo Matteo a p. 59) l’industria audiovisiva (dai vecchi programmi televisivi come i cartoons ai videogiochi come la playstation, passando per tutte le nuove applicazioni di telefonia e tablet) come la principale responsabile tecnologica dell’infantilismo inter-generazionale che nel giro di cinquant’anni ci ha portato alle soglie della stupidità: benchè sembri ignorare totalmente la prospettiva macluhaniana, per la quale ogni nuovo medium inebetisce l’utente captandone il corpo e quindi la psiche, Stiegler non chiude gli occhi davanti alla de-responsabilizzazione sociale e politica che coincide con una perversa, meramente repressiva responsabilizzazione giuridica dei minorenni – cioè sul fatto che, ormai incapace di

far pervenire i giovani alla maggiorità psichica, il mondo degli adulti chiude un occhio sulla propria minorità morale.

In questa situazione di regressione di massa, Stiegler ritiene più che mai urgente captare e formare, cioè potenziare e rafforzare l’attenzione profonda delle nuove generazioni, contrastando la hyper attention – il che rappresenta a giudizio di chi scrive uno degli obiettivi dell’insegnamento come innesco politico del processo di soggettivazione individuale. In altri termini, l’attuale “distruzione dell’apparato psichico giovanile” (come recita il titolo del primo capitolo del libro) implica che la psiche, e con essa l’intelligenza, possa essere costruita attraverso la grammatizzazione – come di fatto è accaduto nelle precedenti fabbriche pedagogiche dell’attenzione in Occidente, le quali nel bene o nel male (cioè al di fuori o dal di dentro dei dispositivi religiosi di assoggettamento degli uomini qua bambini-minori) hanno rappresentato un’efficace psicotecnica di soggettivazione.

Ebbene, pur registrando correttamente il sentimento strutturale di irresponsabilità che accomuna maggiorenni e minorenni (cfr. p. 44) e l’atteggiamento “prescrittivo” che i bambini assumono oggi nei confronti degli adulti (e lo assumono in quanto divinizzati da questi ultimi: cfr. ancora M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita & Pensiero, Milano 2010), Stiegler non sembra liberarsi completamente dal mito dell’innocenza dei bambini in quanto ‘minori’ soggiogati dagli adulti; con una sorta di fissismo familiare che mutua da Freud (cfr. p. 46), egli sostiene infatti che, sebbene “interminabile” (perché neotenica usque ad morten), l’identificazione umana venga indelebilmente condizionata dall’identità “trasmessa dall’imago parentale” (p. 126). In altri termini, se l’oggetto dell’attenzione profonda è l’oggetto del desiderio (cfr. p. 103), è solo grazie alla generazione per filiazione e dunque all’interno del ‘vecchio’ romanzo edipico familiare – direbbero Deleuze e Guattari: del triangolo papà-mamma-io – che secondo Stiegler (la cui posizione appare da tale punto di vista piuttosto conservatrice e assai vicina a quella di Massimo Recalcati) può avvenire la trasmissione del desiderio come sorgente di temporalizzazione e capacità di progettare il futuro; in effetti, le “industrie di programmi” mirano a ridicolizzare l’Edipo (cioè i padri e i nonni dei piccoli telespettatori) per realizzare un castrante maternage consumistico-mediatico: “Non è un caso che né la madre né la nonna siano prese di mira” (p. 47) nelle pubblicità del francese Canal J ‘decostruite’ da Stiegler all’inizio del volume.

Tuttavia, invece di insistere sull’insostituibilità dell’Edipo e sull’ottusa perversità del godimento d’oggetto (secondo una linea teorica che finisce coll’avvicinare molto banalmente Stiegler a Slavoj Žižek), attraverso la fenomenologia dei media si può forse mostrare come proprio il desiderio (sia quello edipico che quello deleuziano, anti-edipico) sia stato ormai colonizzato dal consumo – che cioè il desiderio, in quanto costruibile, plasmabile e deformabile al pari dell’intelligenza, funziona oggi come motore psichico (individuale e collettivo) del capitalismo, piuttosto che come limite della sua stupidità. Sarebbe dunque opportuno passare, come del resto Stiegler sembra voler fare in più punti del testo, da un’analisi squisitamente freudiana e ancora ‘familista’ dell’inconscio, a una considerazione più lucidamente sociologica e pedagogica del plastico apparato psichico delle nuove generazioni, per coglierne le reali possibilità di trasformazione attraverso un uso ‘intelligente’ dei nuovi dispositivi tecnologici – che, esattamente come la scrittura, innescano processi bifronti di grammatizzazione.

Da un lato infatti, nei termini di Stiegler, ciò che viene distrutto dell’apparato psichico giovanile, insieme alla grammatizzazione alfabetica pre-digitale, non è tanto (e per fortuna!), l’inconscio come luogo del rimosso e quindi sorgente di nevrosi, quanto piuttosto l’inconscio come dimensione transindividuale della psichicità che connette l’individuo ai suoi ‘ascendenti’ (poiché leggere significa in fondo parlare coi morti) ma anche, attraverso la “lingua onirica dei miti”, agli strati più profondi e primitivi dell’umano che Freud chiamava “la popolazione di aborigeni dentro di noi”; d’altro canto, e in conseguenza di ciò, è l’esperienza giovanile del mondo a divenire sempre più ‘in-conscia’ nel senso di inconsapevole, ignorante, superficiale e schiacciata sul presente, priva cioè di quel rafforzamento della coscienza che, sempre in termini stegleriani, viene fornito al soggetto da ritenzioni secondarie e terziarie ricche e articolate – ed è in questa seconda, povera declinazione che l’inconscio dei nativi digitali oggi dilaga, invece di scomparire: la loro “attenzione profonda”, concepita come capacità di attesa, temporalizzazione, costruzione, progetto a lungo termine (cfr. p. 171 e sg.) viene infatti distrutta dalla standardizzazione delle ritenzioni terziarie che retroagisce sulle primarie (percezioni) e secondarie (ricordi, cfr. p. 176) – beninteso, il fenomeno non riguarda solo i giovani: tutti noi, “in quanto consumatori, siamo impegnati a diventare incoscienti” (p. 102) e a fregarcene delle conseguenze delle nostre azioni: è anche il nostro inconscio a dilagare oggi sotto forma di ignoranza e strafottenza.

Noi migranti digitali siamo però anche, in un certo senso, gli ultimi testimoni dell’ambiguità delle psicotecniche di grammatizzazione. A sua volta infatti il ‘farmaco’ della scrittura-lettura, in Occidente, è stato “la base tanto del libro quanto della filosofia” (p. 72), cioè tanto del processo di individuazione come assoggettamento a un’istanza superiore (il monoteismo come religione del libro, ma anche la confessione come scrittura di sé da parte del ‘minore’ al cospetto di tale istanza), quanto del processo filosofico di soggettivazione come auto-costruzione di un sé libero, autonomo e critico – singolare e tuttavia transindividuale. Quest’ultimo processo affonda nella scrittura-lettura come psicotecnica di grammatizzazione (cfr. Della grammatologia di Derrida), perché in essa il tempo della phonè diventa spazio: nella misura in cui la lettura ri-temporalizza la spazialità scritta dell’evento fonetico (cfr. p. 156), il pensiero del morto rivive e si trasforma nel mio.

Nella storia della civiltà occidentale questo peculiare bifrontismo dei processi di grammatizzazione come tecnologie del sé – per cui gli stessi dispositivi di assoggettamento dagli effetti tossici (velenosi) possono fungere da benefici dispositivi di soggettivazione – si ritrova anche nelle tecniche d’insegnamento, e può essere letto, come fa Stiegler, in chiave farmacologico-omeopatica, ma anche più decisamente politica. In termini kantiani, l’istruzione obbligatoria introdotta in Europa tra il XVIII e il XIX secolo (cfr. pp. 200 e sg.) rappresenta un tentativo ‘politico’ di far uscire le masse dallo stato di minorità attraverso la grammatizzazione e l’interiorizzazione sistematica della forma d’attenzione profonda (cfr. p. 82) permessa dalla scrittura-lettura alfabetica – ma ciò è accaduto all’ombra dello Stato, che si è arrogato il diritto-dovere di insegnare la nazione alle giovani generazioni all’interno di un sistema identitario e valoriale sostanzialmente borghese e familista. Per usare un linguaggio foucaultiano, se fabbricare corpi docili al lavoro significa produrre anime conformi alle esigenze della società, la scuola moderna, come psicotecnica che lavora a partire dal corpo, è (stata) prevalentemente un dispositivo disciplinare di assoggettamento-addestramento attraverso cui sorvegliare

e punire i ‘minori’, ma può anche essere una strada verso la maggiorità critica. Come ha sostenuto illuministicamente, da sociologo ma anche da filosofo, Pierre Bourdieu (autore completamente ignorato da Stiegler, che tuttavia si è occupato come pochi del sistema d’istruzione francese), la scuola statale dovrebbe praticare una “Realpolitik dell’universale”, cioè mettere potenzialmente tutti in condizione di uscire dallo stato di minorità. E si può dire che per circa due secoli, sebbene in modo molto imperfetto e ideologicamente viziato, essa lo abbia fatto – almeno fino alla colonizzazione dello Stato da parte del mercato e alla conseguente trasformazione dell’istruzione pubblica in un’agenzia (de)formativa al servizio delle “industrie di programmi” (cfr. p. 203).

Oggi Stiegler ci propone (propone in fondo a noi studiosi, filosofi, ecc., in quanto docenti) di passare dalla psicopolitica delle psicotecnologie informatiche, completamente asservite al capitalismo finanziario del TINA (There Is No Alternative), alla noopolitica intesa come superamento della dipendenza, ossia della tossicomania digitale del “populismo industriale” e della connessa regressione pulsionale-proletarizzazione dei consumatori; ci invita a realizzare una “psicopolitica di diritto”, un’“ecologia dello spirito” che combatta lo psicopotere economico di fatto (cfr. p. 91), trasformando le psicotecnologie sildenafil 150 (soprattutto digitali) in tecnologie dello spirito, in nootecnologie (cfr. p. 136). E aggiunge che senza questa politica dello spirito ogni riforma dell’insegnamento sarà fatta invano (cfr. p. 114) – ma è vero anche il contrario: che senza la potenza pubblica dello Stato, non sarà possibile alcuna massiccia azione psicotecnologica sulle nuove generazioni. Ebbene, oggi lo Stato non solo non è in grado, ma non ha alcuna volontà di realizzare una noopolitica. La politica pubblica (non solo francese) è ‘menefreghista’ e a breve termine quanto lo sono le aziende di marketing e le industrie di programmi che mirano al profitto, come riconosce lo stesso Stiegler quando registra la fine dello Stato-provvidenza e del sistema del welfare (cfr. p. 215, ma anche il § Dallo Stato al mercato, pp. 218 e sg.) e sintetizza brutalmente: lo stato-nazione ha lasciato il campo alla mafia (cfr. p. 286). Come avverte Paolo Vignola nella sua introduzione (cfr. p. 29), vi è dunque una certa contraddittoria ingenuità politica nella posizione di Stiegler, che consiste nel giocare contro la devastazione della scuola pubblica la carta della farmacologia, appoggiandosi proprio alla potenza pubblica (cfr. pp. 298-99).

Profondamente connessa al problema della volontà politica, vi è inoltre un’obiezione che potrebbe essere rivolta alla farmacologia stiegleriana proprio a partire dall’insegnamento come psicotecnica di soggettivazione. Secondo Stiegler – che qui segue Platone e, pur senza citarlo, Derrida (cfr. Del diritto alla filosofia, Abramo, Catanzaro 1999) – l’insegnamento è la vera pratica della filosofia. Ma, nella misura in cui la filosofia fa diventare più intelligenti, costituisce cioè un rimedio contro il veleno della stupidità umana ch’essa stessa contribuisce a produrre, la questione dell’insegnamento della filosofia non è solo farmacologica – è anche e soprattutto una questione comparativa: “La battaglia dell’intelligenza è la battaglia per essere intelligenti. Come essere intelligente, e in particolare come essere più intelligente, o almeno essere tanto intelligente quanto coloro che sono già molto intelligenti…?” (p. 87). Questa domanda presuppone la volontà individuale di diventare più intelligenti e, di conseguenza, la coscienza – per non dire la vergogna – della propria stupidità e della propria ignoranza. Perciò, a giudizio di chi scrive, il limite pedagogico dell’illuminismo di Stiegler sta nel postulare – con una certà infedeltà a Platone, più volte invocato nel testo – che tutti gli uomini provino tale sentimento di vergogna di fronte alla bêtise, alla stupidità propria e altrui. In realtà, come ben sanno gli insegnanti, non è affatto così: non tutti i ‘minori’ vogliono essere più intelligenti e uscire dallo stato di minorità, perché non tutti hanno “il coraggio e la volontà di sapere” (p. 71) necessari per procedere da soli, seppur invitati da altri (cioè nella dimensione transindividuale della psichicità) nel proprio, singolare processo di soggettivazione. Nei termini ‘kantiani’ di Stiegler, non è vero che “ogni uomo, purchè non ci si sforzi a mantenerlo nella sua pigrizia e nella sua viltà, voglia diventare maggiore” (p. 97), dunque non è vero neppure che “un’intelligenza individuale non esiste” (p. 90),

perché se anche ogni intelligenza si lega a quella delle generazioni passate e comunica con quelle di coloro che l’invitano alla maggiorità, la risposta che ognuno di noi dà a tali sollecitazioni è imponderabilmente individuale e differenziata, così come, secondo il Freud del Disagio della civiltà, ben pochi individui riescono a sublimare le proprie energie pulsionali.

In sostanza, benchè l’insegnamento cerchi kantianamente di elevare il livello d’intelligenza di tutti, ovvero di costituire un apparato sociale e politico in grado di riconfigurare transindividualmente, collettivamente gli apparati psichici (cfr. p. 88), praticando quella che Bourdieu chiama “Realpolitik dell’universale”, in termini nietzscheano-foucaultiani si dovrebbe onestamente riconoscere che le ‘tecniche del sé’, intese sia come tecniche di trasformazione costruttiva o addirittura creativa delle pulsioni, sia come accesso alla maggiorità etico-politica, restano prerogativa di una minoranza dei soggetti umani – la minoranza di artisti, filosofi, studiosi, ecc., che insieme alla potenza (Macht) della critica possiede “coraggio e volontà di sapere” (libido sciendi). Stiegler non può dunque rimproverare a Foucault l’assenza di farmacologia (“Non c’è movimento farmacologico per Foucault”, p. 206; faccio notare en passant che per il Foucault di Nascita della clinica l’intera ‘metaforologia’ medica, col suo sguardo oggettivante, è quanto meno sospetta), perché nel filosofo di Poitiers vi è piuttosto un movimento genealogico-critico, e di conseguenza una posizione nietzscheana del problema della soggettivazione come ‘trasformazione di sé ad opera di se stessi’ – come cura di sé. Risulta peraltro incomprensibile, oltre che incondivisibile, la tesi di Stiegler secondo cui Foucault non ha fatto la storia della costruzione attenzionale, cioè la storia della grammatizzazione o della scuola, ovvero non si è occupato dell’“intelligenza genealogica dei propri supporti ipomnestici” (p. 138), perché non avrebbe visto la funzione soggettivante della scrittura. Da un lato, infatti, non si può anacronisticamente rimproverare a Foucault di essere stato Foucault, e di aver quindi pensato il processo di soggettivazione occidentale con le sue categorie concettuali, invece che con quelle stiegleriane. D’altra parte, non lo si può certo accusare di aver dimenticato l’origine spirituale della disciplina nella scuola, cioè di aver tralasciato le psicotecniche religiose (cfr. pp. 197-98) o la pratica della scrittura di sé in ambito confessionale e pedagogico, oltre che giuridico e naturalmente filosofico, perché si può dire che in tutta la sua opera (non solo testuale) – dall’intervista del ‘68 Le beau danger (recentemente tradotta in italiano: cfr. Il bel rischio, Cronopio, Napoli 2013) fino ai corsi e agli interventi dei primi anni ‘80 – Foucault abbia rilevato, seppure a modo suo, il bifrontismo della grammatizzazione, che è insieme dispositivo psico-fisicodi assoggettamento e processo di costruzione autonoma della soggettività. Analogamente, Foucault ha “ignorato” le materialità del cinema, della televisione o dei nuovi dispositivi non tanto e non solo perché è morto nell’‘84, quanto perché, in qualità di “storico allo stato puro” (P. Veyne), non si è mai occupato direttamente, bensì soltanto in maniera “sagittale” del presente – ma è proprio grazie alla sua genealogia dei dispositivi che, qualche anno dopo la sua morte, Deleuze ha potuto cogliere la trasformazione della società disciplinare in società di controllo, e che noi oggi possiamo registrare la metamorfosi del biopotere in marketing o in capitalismo cognitivo.

Contro questa metamorfosi, come già riconosciuto all’inizio di questa recensione, Stiegler cerca di non intonare la semplice lamentatio rassegnata, catastrofica o, come lui la definisce, “delusionista”, che caratterizza molti intellettuali sedicenti di sinistra, nella misura in cui, con toni in fondo non dissimili da quelli dell’economista Jeremy Rifkin (La società a costo marginale zero, Mondadori, Milano 2014), intende fare leva proprio sul potenziale cognitivo e socialmente emancipativo delle tecnologie digitali.

Ma c’è davvero un modo non regressivo, critico di utilizzare questi dispositivi tecnologici, che in termini freudiano-marcusiani non producono alcun disagio, ma sono anzi piacevoli, desiderabili, non repressivi e addirittura sublimanti, superando così l’astrazione teorica (se lo chiede anche Paolo Vignola nella sua introduzione a p. 35)? …Forse soltanto dei soggetti fortemente ‘grammatizzati’ dal dispositivo di lettura-scrittura, cioè dei migranti digitali quali noi siamo, possono sperare di riuscirci. Ma in quanto animali alfabetici e in senso derridiano, noi siamo già postumi – stiamo scomparendo. Da tale punto di vista, Stiegler opera una specie di forzatura, traghettando la decostruzione derridiana (che resta una raffinatissima critica della metafisica) verso la terapeutica, attraverso la farmacologia, che ha in sé elementi metafisico-valoriali e comporta atteggiamenti moralistici contro il “nichilismo” delle giovani generazioni, che avrebbe infettato la forza ideale del desiderio: “Il passaggio all’atto delittuoso sempre più diffuso tra i giovani è la malattia del desiderio con cui si compie il nichilismo” (p. 103).

Ebbene, nonostante l’uso conservatore del termine da parte di Stiegler, che lo associa banalmente al capitalismo menefreghista, come posizione filosofica il nichilismo è molto di più di un semplice prodotto dell’individualismo consumistico. In una chiave molto diversa da quella ‘teologica’ abbozzata da Agamben in Che cos’è un dispositivo?, per soggettivarsi e soprattutto per soggettivare (per realizzare cioè una trans-individuazione psichica e collettiva), bisogna profanare i dispositivi, ma non nel senso di distruggerli (sarebbe luddismo postmoderno), o di renderli ‘comuni’ (ché essi lo sono già, e fin troppo), bensì di ridicolizzarli: bisogna praticare, da insegnanti, una profanazione ironica e nichilistica dell’esistente – della sua stupidità.

Eleonora de Conciliis

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