Piero Manzoni. Un artista minore – di Massimo Canepa

 

Piero Manzoni – un artista minore.

di Massimo Canepa

 

Cinquant’anni dalla morte e si è da poco conclusa a Milano la mostra Piero Manzoni 1933-1963.

In Automitobiografia Enrico Baj scrive: «Dicevano che non capiva niente, che era un ritardato, che era uno schifoso: poi morì giovanissimo e divenne bravo, bravissimo per tutti e i suoi quadri andarono alle stelle».

Chi cercasse in rete qualche informazione su Piero Manzoni si imbatterebbe in una sfilza di articoli il cui incipit riprende il verso della nota canzone dei Baustelle, Un romantico a Milano: «Fra i Manzoni preferisco quello vero, Piero». Non solo i Baustelle, anche Caparezza distingue tra i due Manzoni optando per Piero. E non mancano gruppi emergenti – I cani – o demenziali – gli Skiantos – che gli hanno dedicato intere canzoni o gruppi che si ispirano direttamente a lui – i ManzOni.

Se oggi Piero Manzoni è il simbolo di (una certa) contestazione, allo stesso tempo, come ogni posizione marginale o estrema, suscita anche e soprattutto l’interesse degli studiosi, in particolare di quanti – facendo ammenda alla storia – intendono rivalutarne la dimensione artistica.

La cosa interessante è che il rinnovato interesse per Manzoni avvenga a cinquant’anni dalla morte. Cinquant’anni che, nonostante abbiano visto l’incessante impegno di Germano Celant a favore di Manzoni, probabilmente saranno ricordati solo per lo scandalo del 1971, anno della prima retrospettiva, organizzata da Palma Bucarelli alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. La mostra, in cui erano esposte le famigerate scatolette di Merda d’artista, scatenò un’accesa interrogazione parlamentare da parte del deputato democristiano Guido Bernardi, quindi tutta una serie di discussioni pubbliche, prese di posizione, attacchi e difese.

Appunto la Merda d’artista – simbolo incontestato di quanti vedono in Piero Manzoni il simbolo della contestazione. Certo è che oggi la Merda d’artista non suscita più alcuno scandalo, immersi come siamo in un flusso costante di immagini a vario titolo oscene, e quindi da esse e per esse perfettamente anestetizzati. Paradossalmente, però, proprio perché non c’è più nulla che scandalizzi, gli argomenti in tal senso sono presi dal passato: in quanto già paradigmatici di un’epoca, è più facile, quasi intuitivo, associarli ad un nuovo paradigma. Si potrebbe dire che non c’è contestazione senza decontestualizzazione. Stando così le cose, vale davvero la pena che Manzoni sia ricordato solo per la Merda d’artista – o comunque per il valore che ad essa si è soliti attribuire?

Secondo alcuni, l’opera in questione ha un preciso valore politico: la merda d’artista interpreta, opponendovisi da subito, il nascente sistema dell’arte, perché mette alla berlina il dispositivo feticista su cui si fonda il rapporto arte/merce. Su ogni scatoletta è riportata la dicitura – in italiano, inglese, francese e tedesco –: «Merda d’artista. Contenuto netto gr. 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961». Manzoni ne stabilisce anche il prezzo: a peso d’oro. In realtà, un gesto estremo che si rovescia su se stesso, in quanto Manzoni regalò la maggior parte delle scatolette ad amici e conoscenti. Gesto estremo e quindi gratuito, che non ha comunque sottratto le scandalose scatolette al mercato. Anzi, proprio come i prodotti cui fanno il verso, ci sono scatolette di marca (originali) e di sottomarca (riproduzioni autorizzate). Delle prime ne è stato venduto un esemplare da Christie’s, nel 2012, per più di 120.000 euro. Le seconde erano facilmente reperibili per alcune decine di euro presso il bookshop della mostra milanese.

Le scatolette si sono sedimentate scandalosamente nell’immaginario comune per il contenuto anziché per il gesto che le ha prodotte. L’attenzione si è morbosamente focalizzata sull’elemento scatologico e non su quello autoriale. In realtà, l’elemento interessante non è tanto la merda – che, a quanto pare, non è il vero contenuto delle scatolette (qualcuno non ha resistito alla tentazione di aprirle). L’elemento interessante è la nota specifica: d’artista. Wahrol, ad esempio, non ha specificato in tal senso la Minestra in scatola Campbell (1962) né tantomeno le Brillo Box (1962/1964) o i Kellogg’s Cornflakes (1964).

 

Dai primi bituminosi lavori agli Achromes, dalle Linee ai Corpi d’aria, dalla Base magica allo Zoccolo del mondo, dalla Consumazione dell’arte dinamica del pubblico. Divorare l’arte alla Merda d’artista, Manzoni corre contro i tempi per anticiparli, per sottrarre l’opera d’arte alla dialettica temporale – che sarà poi la regola di funzionamento del mercato dell’arte: un mercato che non torna indietro non va mai al ribasso!

Le linee arrotolate e rinchiuse in astucci sigillati simboleggiano l’occultamento del gesto artistico, il tirare una linea su un’intera tradizione sottraendosi ad essa. Ars est celare artem – la celebre massima latina raggiunge in Manzoni punte di concretezza mai viste prima. Come gli Achromes nascondono il quadro, lo spazio visivo, sotto pieghe di stoffa imbiancata dal caolino (ma anche michette, ghiaia, polistirolo), o sotto pelle di coniglio, batuffoli di ovatta, cotone idrofilo, così i palloncini dei Corpi d’aria nascondono, racchiudono il Fiato d’artista. Come la Base magica conferisce lo statuto di opera d’arte a chi vi si pone sopra, e a cui viene rilasciato un certificato con tanto di bollo che ne garantisce l’autenticità, così lo Zoccolo del mondo fornisce il piedistallo ad un’immensa opera d’arte: il mondo e i suoi abitanti. Dell’artista non rimane che la firma.

Ma l’occultamento del gesto artistico si fa tanto più evidente quanto più l’artista si fa opera egli stesso. Se al termine della Consumazione dell’arte, la performance durante la quale il pubblico mangia le uova bollite e firmate da Manzoni con la propria impronta digitale, così che ognuno incorpori in sé l’atto creativo – l’uovo come simbolo di creazione –, se alla fine di una tale performance non rimangono che le scorie, i resti della creazione – i gusci d’uovo – a ragione, dell’artista in quanto opera egli stesso, non restano che le scorie, i resti, le feci. L’artista diventa un’opera la cui fruizione è comunitaria: non più contemplazione ma partecipazione, non più messa a distanza ma comunione. Manzoni fa in modo che il fruitore possa appropriarsi di un pezzo dell’autore – sia esso l’anima (il fiato nel palloncino), l’atto creativo (le uova bollite; la firma sul proprio corpo), la reliquia (le feci in scatola).

Ma proprio in quest’ultimo atto si può intendere l’altro versante dell’occultamento manzoniano, il gioco dell’ars est celare artem, un gioco dadaista nell’impianto e duchampiano per ironia. Cosicché dietro ogni opera manzoniana si può trovare l’originale di cui è caricatura. Ma non si tratta del dileggio o dello sberleffo fine a se stesso, della parodia a sé stante. Semmai di una parodia reale, di un controcanto mirante a superare il limite, a sviscerare le possibilità rimaste inespresse. Ad esempio, la comunione, la transustanziazione, il culto delle reliquie di cui sopra non sono tanto la profanazione del rituale cattolico quanto l’evocazione ed il rovesciamento del misticismo kleiniano. Tanto «spirituale e messianico» Klein con i suoi Monochromes quanto «dialettico e materialistico» Manzoni con i suoi Achromes. Se Klein aveva realizzato le Antropometrie o Pennelli viventi (1960), Manzoni aveva risposto con le Sculture viventi (1961). Ancora: si pensi all’Aria di Parigi di Duchamp e ai Corpi d’aria di Manzoni o alla suggestiva ipotesi secondo cui la Merda d’artista (maggio 1961) deriverebbe dalla scatoletta – in tutto e per tutto simile a quelle per il tonno – che Arman aveva realizzato come invito alla propria mostra Full-up presso la galleria Clert di Parigi (ottobre 1960) e che Manzoni con tutta probabilità vide durante un soggiorno a Parigi (gennaio 1961) o durante la mostra di Arman a Milano (aprile 1961). Se si tiene conto che la mostra di Arman consisteva in una sala bianca colma di rifiuti e materiali di scarto, il gioco è fatto. In tutti questi casi, non si tratta di plagio, imitazione o furto d’idee. Semplicemente Manzoni intendeva l’arte come continuo superamento, un superamento che, portato alle estreme conseguenze, non poteva che rovesciarsi ironicamente nel suo opposto. Si può prendere come ulteriore esempio la polemica sorta intorno ai Corpi d’aria e al Fiato d’artista. Manzoni, venuto a conoscenza delle ricerche di Boriani e del Gruppo T intorno ai corpi pneumatici, si precipitò a comprare un centinaio di palloncini bianchi. L’esposizione di Corpi d’aria e Fiato d’artista si tenne nel 1960, ma Manzoni ne retrodatò la realizzazione al 1959, accusando quindi di plagio gli altri. Nel faccia a faccia che seguì, Manzoni rispose: «Siete dei meccanici!». Ironia d’artista versus macchina dell’arte.

Manzoni guarda il mondo con sguardo ironico e analogamente fa con l’arte e i suoi protagonisti. Manzoni è consapevole che l’ironia supera la critica perché unisce gli opposti ottenendo un effetto straniante. Infatti, se è vero che in Manzoni arte e vita vengono a coincidere, allora non si tratta più di redimere la vita attraverso l’arte perché è l’arte ad adeguarsi alle dinamiche della vita. Scrive Andrea Cortellessa: «quello di Manzoni è un realismo, tanto paradossale quanto integrale». E a tal proposito ricorda un episodio raccontato da Nanda Vigo, compagna dell’artista. Un giorno, un panettiere di Brera disse a Manzoni: «Perché non mi fa un ritratto, in cambio di brioches e panini?». Manzoni prese alcune michette, le incollò ad un quadro ricoprendole di caolino: «T’ho fatto il ritratto». Da lì nacque una fortunata serie di Achromes.

La domanda allora è: in Manzoni prevale il realismo o l’ironia? Critici importanti e tutt’altro che sprovveduti come Jean Clair hanno inserito Manzoni tra i rappresentanti dell’«età del disgusto» oggi dominante. Prendendo come riferimento ovviamente la Merda d’artista e supponendo che si tratti, realmente, di escrementi. Per Jean-Pierre Criqui, invece, «la merda d’artista non esiste che neutralizzata dalla sua messa in scatola». E poiché l’opera è nascosta, occultata, «la sua principale espressione – osserva Emiliano Dante – resta inevitabilmente quella verbale, fatto straordinariamente adatto ad una veicolazione massmediatica. […] le opere di Manzoni non sono opere da vedere, ma da dire».

Lucio Fontana disse di Manzoni che con lui si era arrivati alla fine dell’arte. Una morte anticipata di cui molti degli artisti di oggi – ma soprattutto galleristi e direttori di musei – non si sono accorti. Con buona pace di detrattori e corifei. Sublime ironia d’artista.

 

Lo si sarà capito: si tratta di una recensione. Tuttavia, poiché il soggetto non esprime i valori di bellezza, classicità e positività (?) definiti dalla linea editoriale del committente, non se n’è fatto nulla. Ho provato a insistere, ma quando qualcuno, ignorando la deriva storica dell’espressione, ha parlato di «arte degenerata», ho capito che era meglio lasciar perdere.

Ancora una volta, critica e clinica coincidono nel giudizio finale: Manzoni? Un’anomalia, un artista marginale. La cosiddetta merda d’artista? Il prodotto di una patologia

Vorrei quindi prendere spunto da questa breve recensione e dalla piccola querelle derivatane per porre una questione: non è forse giunto il momento di cominciare a pensare ad una logica delle sensazioni che, passando attraverso pieghe e variazioni deleuziane, sia in grado di fornire un armamentario concettuale adatto ad affrontare al meglio il lato oscuro dell’arte contemporanea senza averne paura e senza cedere al complotto? Dietro la sparizione dell’arte o la sua morte (ancora?!) non potrebbe esserci ben più di un’«estetica dello stercorario»? Dietro il sensazionalismo ed il suo correlato, l’anestesia, non potrebbero esserci sensazioni più o meno deterritorializzate?

Ancora una volta è in questione il corpo – ma un corpo desideroso di rinunciare ai suoi organi (Artaud/Deleuze) o un corpo già estromesso dagli organi stessi (Žižek)? Del resto, se la società è lo spettacolo di se stessa (Nancy), così che il corpo – sociale e individuale – è costretto ad una esposizione controllata in cui co-incidono corpo d’attore (Benjamin1) e corpo disciplinato (Foucault), allora l’unica ribellione possibile non può che consistere nell’improvvisazione oscena, nella perdita di controllo, in una dis-organizzazione o uno s-corporo generali – così da invadere l’immaginario di umori, scarti, deiezioni.

Enrico Baj, nella sua Ecologia dell’arte, ricorda che «i territori dell’immaginario» sono soggetti a corruzione e degrado ancor prima dell’ambiente naturale. Il fattore inquinante principale è il conformismo, il cui principio organizzativo non ha nulla di estetico: le opere d’arte, al pari di discariche e immissioni venefiche, «recano il sigillo e l’autorizzazione degli uffici competenti», vale a dire di artisti e musei. Nel conformismo, autorialità ed autorità sono con-sensuali.

Scrive Baj a proposito della Merda d’artista:

 

Gli impressionisti furono i primi a disdegnare l’ufficialità, i soggetti celebrativi e il verismo. Picasso spaccò la forma e, ispirandosi all’arte negra, inventò il cubismo. Piero Manzoni inaspettatamente dissacrò la stessa avanguardia che andava tramutandosi in arte di regime: arte ormai accettata dai conservatori dei musei e in tutti i luoghi del potere, arte celebrativa di un nuovo conformismo, quello del consenso. In base a quell’eterna predilezione per il principio di commiserazione, su cui fece leva il successo dei Miserabili di Victor Hugo, anche l’arte divenne “povera”: e si tramutò nell’esibizione di sassi, fascine, mucchi di patate, rottami schiacciati, metri cubi di terra, carbone e ferraglie. Germano Celant in Arte povera disquisisce sull’importanza della evacuazione delle impurità. Le deiezioni corporali divennero sempre più metafora di riconquistata purezza e di ritorno a quella infanzia in cui si sostiene sia tipico l’attaccamento alle feci. L’importanza della coprologia è provata da quella esclamazione che dopo Cambronne, e forse anche prima, è frequentemente sulla bocca di tutti. Alla fine del secolo scorso Alfred Jarry ingentilì quell’epifonema introducendovi, a mo’ di epentesi, una erre: “Merdre!” è la parola con cui si inizia il suo famoso Ubu Re. Attorno a siffatte questioni, pure correlate all’importanza sociale, politica e fiscale delle deiezioni rimandiamo al trattato di Dominique Laporte, Histoire de la merde, pubblicato a Parigi nel 1977. Queste premesse, e quelle di Laporte, sono indispensabili a chi si interessi all’arte di Piero Manzoni.

 

Pur se incompleta (perché superata, almeno nelle valutazioni di mercato), cionondimeno si tratta di una definizione utile – se non altro per fare una variazione, creare una sovrapposizione o quantomeno chiudere in minore.

 

 

Bibliografia

 

Baj, E., Automitobiografia, Rizzoli, Milano 1983.

Ecologia dell’arte, a cura di A. Sanna, Abscondita, Milano 2013.

Baudrillard, J., La sparizione dell’arte, a cura di E. Grazioli, Abscondita, Milano 2012.

Il complotto dell’arte, tr. it. di L. Frausin Guarino, ES, Milano 2013.

Biagi, D., Il ribelle gentile. La vera storia di Piero Manzoni, Stampa Alternativa, Viterbo 2013.

 

Celant, G., Su Piero Manzoni, Abscondita, Milano 2014.

Clair, J., De immundo, tr. it. di P. Pagliano, Abscondita, Milano 2005.

Cortellessa, A., Monsieur Zero. Manzoni, quello vero, suwww.alfabeta2.it/2014/05/03/monsieur-zero-manzoni-vero/

Dante, E., Merda d’artista, Aracne, Roma 2005.

Deleuze, G., Logica della sensazione, tr. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2008.

Un manifesto di meno, in Bene, C. – Deleuze, G., Sovrapposizioni, Quodlibet, Macerata 2012.

Gualdoni, F., Piero Manzoni. Vita d’artista, Johan & Levi, Milano 2013.

Breve storia della “Merda d’artista”, Skira, Milano 2014.

Laporte, D., Storia della merda, tr. it. di S. Rosso e R. Cagliero, Multhipla, Milano 1979.

Manzoni, P. Scritti sull’arte, a cura di G. L. Marcone, Abscondita, Milano 2013.

1 Con la scusa delle diverse redazioni ed edizioni de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, si sono troppo spesso sottovalutati i passi dedicati al rapporto tra attore, macchina da presa e montaggio.

 

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