Francesco Raparelli – Singolarità e Individuo | Singularity and Individual

*Lecture delivered during Deleuze Studies Conference, Rome 2016

Gilles Deleuze, in Italia, è stato molto odiato. Soprattutto dall’Accademia. E lo è stato perché sostenitore del Sessantotto francese prima, dell’Autonomia Operaia e del Settantasette italiano poi. Filosofo dalla «parte dei senza parte», filosofo del conflitto. Tali simpatie “pericolose”, e non solo la sua ostilità nei confronti della dialettica hegeliana, gli sono valse anni di scomuniche. Giunti gli anni Ottanta, con essi Heidegger, il pensiero debole e la fine dell’hegelo-marxismo, Deleuze è stato maltrattato ancora, perché il suo “postmodernismo” – compiutamente elaborato assieme a Félix Guattari in Mille piani – prevedeva odio per lo Stato, «macchine da guerra», creazione di forme di vita alternative al capitalismo. Se postmoderno, così i “preti” del Bel Paese, allora fine delle lotte e della Storia, accettazione euforica del presente, di Craxi e di Berlusconi.

Come è accaduto con Michel Foucault, in ritardo e gradualmente l’Accademia italiana ha cominciato ad accogliere il “mostro”, Gilles Deleuze. Trasformandolo, come si fa in questi casi, in un cagnolino domestico (animale edipico per eccellenza). Chiaramente separandolo da Guattari, troppo militante e troppo marxista. Qual è stato l’appiglio utile per rendere possibile l’opera di addomesticamento? La nozione di «differenza». Al pari di un altro concetto che l’autore di Logica del senso deriva da Spinoza, quello di «immanenza», la differenza è stata un’altra buona occasione per sostenere i fasti del neoliberalismo. Precisiamo: attraverso l’immanenza, confondendo Spinoza con Plotino, vengono promossi la fine del conflitto sociale e l’amore incondizionato per il mondo così com’è; attraverso la differenza, il trionfo degli individui, con le loro irriducibili differenze appunto, e dell’individualismo.

Già nel 1964, recensendo una fondamentale e trascurata opera di Gilbert Simondon, Deleuze chiarisce che la differenza non ha nulla a che fare con gli individui già formati. Esistono, piuttosto, processi di individuazione, e questi processi non coincidono con l’Essere; sono solo un «momento», di certo non il primo. La nozione di differenza, erroneamente confusa con quella propria delle qualità e dell’estensione (dei corpi individuati), riguarda l’Essere come «campo intensivo», pre-individuale, genetico. Con riferimento alle parole di Simondon, la differenza si combina con il concetto, decisivo nella termodinamica, di «energia potenziale». Tanto da diventare «differenza di potenziale» che presiede, accompagna e indirizza la costituzione (fisica, biologica, psichica) degli individui. Nell’individuazione vitale, biologica e psichica, la «disparità» pre-individuale non limita le sue «informazioni», così come accade per una pietra o un cristallo. Il campo intensivo, reale seppur inattuale, continua il suo “lavoro”, modificando – a partire dagli incontri, dalle composizioni e dalle decomposizioni – i corpi, gli affetti, le idee.

La nozione deleuziana di differenza, invece di confondersi con quella di individuo (così cara ai liberali vecchi e nuovi), coincide con quella di «singolarità». L’Essere, pur non essendo individuale, è singolare. Meglio, coincide con una molteplicità di singolarità, di differenze potenziali che – parole di Deleuze – «costituiscono le individualità».

Fin qui, dal punto di vista ontologico, cogliamo un robusto riferimento a Bergson. Sicuramente mettiamo al bando le grossolane semplificazione neoliberali, che vogliono la differenza al servizio del mercato e della democrazia rappresentativa, ma niente di più. Non è chiaro, infatti, per quale motivo, con la definizione di differenza come singolarità produttiva, Deleuze si stia occupando anche di politica e di conflitto.

Per capirlo è necessario studiare con attenzione i testi da Deleuze dedicati a Spinoza. A condizione, chiaramente, di non confondere Spinoza con Plotino. Ricordandosi sempre, cioè, che prima di Spinoza c’è stato anche Cusano, ma soprattutto il materialismo di Bruno. Studiando, e non sfogliando, quei testi, ci accorgiamo che la nozione di singolarità coincide con quella di potentia. La potenza spinoziana, l’essenza singolare appunto, è il conatus, lo sforzo di perseverare nella propria esistenza, pars intensiva dell’infinita potenza produttiva di Dio. Usando un termine tedesco, caro tanto a Leibniz quanto a Schelling e Marx, diciamo che Dio (o l’Essere o la Natura) è Quelle, fonte. Ma questa fonte è sempre molteplice, una serie infinita di potenze, come molteplici sono gli enti nei quali queste potenze si esprimono.

Le potenze convengono sul piano dell’essenza (in cui sono «complicate»): ma vale lo stesso su quello dell’esistenza (in cui si «esplicano»)? Cos’è dunque la potenza dal punto di vista degli enti, delle cose gettate nell’esistenza? Potenza, sempre attuale, di essere affetti, nel senso di patire quanto di agire. Semmai, utilizzando un termine matematico caro a Deleuze, la potenza di ciascuna «cosa singola» viagra precio mexico pfizer è sempre «rapporto differenziale» tra passione e azione. Rapporto, s’intende, impiantato nel conatus.

Il passaggio dall’ontologia alla politica, e al conflitto, comincia a essere più chiaro quando Deleuze, con l’Etica, si sofferma sui «modi finiti», sulla dinamica dei corpi e la trama delle passioni. Il «pessimismo» di Spinoza – e, aggiungo io, di Deleuze – è fuori discussione: siamo in primo luogo passivi, segnati da idee inadeguate, dominati dall’immaginazione. La nostra potenza è, in prevalenza, potenza di patire, passioni tristi (invidia, vanagloria, odio, gelosia, ambizione smodata, ecc.) che comprimono, affaticano la cupiditas (il conatus propriamente umano). Eppure le passioni, sempre fluttuanti e casuali, sono anche gioiose. L’incontro amoroso, ma, banalmente, un cibo il cui sapore sa farci godere, una battuta di spirito a cui non riusciamo a resistere, quel tramonto con i suoi colori mai visti prima, la dolcezza di quel viso, la combinazione con quello strumento che riduce la fatica del mio lavoro: incontri fortuiti, passioni gioiose che incrementano la nostra potenza di esistere e di agire.

Se però fossimo solo «giocati dal caso», avremmo politica e, di più, democrazia? Evidentemente no, ma l’incremento degli incontri gioiosi è la premessa etica delle nozioni comuni, ovvero della

ragione. Spinoza, insiste Deleuze, presenta un divenire-attivi – ovvero divenire-causa adeguata dei propri affetti – del tutto materialista. Le nozioni comuni non sono altro che assemblaggi gioiosi conquistati dal punto di vista della causa, della necessità. Regole di combinazione, concatenamenti agiti e non più fortuitamente subiti. Ancora: dire nozioni comuni significa affermare l’incremento, comune e singolare, della potenza di esistere e di agire (che è sempre potenza di pensare). Dalle passioni tristi alla ragione, dalla ragione all’amore di Dio come Natura, al terzo genere di conoscenza: il processo di liberazione non riguarda mai gli individui, ma il passaggio – sempre reversibile, antagonistico e polemico – dal molteplice ontologico ed etico alla multitudo, il corpo sociale e politico della democrazia. Di certo non sfugge quanta attenzione Deleuze dedichi alla beatitudo e alla V parte dell’Etica. Sperimentare la nostra eternità, divenire «puramente espressivi», significa passare dalla conoscenza adeguata dei rapporti a quella delle essenze singolari. Non sfugge, altrettanto, che per fare esperienza della propria pars intensiva, del proprio gradus di potenza, per Deleuze come per Spinoza occorra passare per un «divenire-rivoluzionario», per una composizione attiva dei diritti (i quali coincidono con le potenze), per la costruzione di istituzioni capaci di battere le passioni tristi. Democrazia assoluta, appunto.

Attraverso le singolarità produttive, quindi, riscopriamo Deleuze, ancora una volta, filosofo del conflitto e dell’affermazione nello stesso tempo. Spiace per chi non riesce ad accettare questa combinazione, facendo del secondo corno, ontologico ed etico, la cancellazione irenica del primo, politico e polemico; ma bene continuare a dire la verità.

 

Francesco Raparelli – Esc, Atelier autogestito | CLAP

 

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Gilles Deleuze was very much hated in Italy. Especially by the Academia. He was hated because he was a supporter of the French movement in 1968, then of the Italian Autonomia Operaia and finally of the Italian movement in 1977. Philosopher on the side of “those who have no part”, philosopher of conflict. These “dangerous” leanings – and not only his hostility towards Hegelian dialectics – earned him years of ostracism. Then the 1980s came, and with them Heidegger and the “pensiero debole” (weak thought), the end of Hegelian Marxism, and Deleuze was still treated badly, because his “Postmodernity” – which he fully theorized together with Félix Guattari in A Thousand Plateaus – was shaped around hate for the State, “war machines”, the creation of forms of life alternative to capitalism. If it must be Postmodernity, so reasoned the “priest” in our country, then that means the end of struggles and of History, and the euphoric acceptance of the present, of Craxi and Berlusconi.

As was the case with Michel Foucault, the Italian Academia gradually and with much delay started to accept the “monster” Gilles Deleuze. Transforming him –  this is the way to go – into a lapdog (the Oedipal animal par excellence). Clearly he was separated from Guattari, too militant and too Marxist. What made this taming operation possible? The notion of “difference”. The same way another concept that the author of The Logic of Sense derives from Spinoza, the concept of “immanence”, difference became yet another tool in the hands of those intent on celebrating the magnificence of neo-liberalism. To be more precise: through immanence, by confusing Spinoza with Plotinus, the end of social conflict and unconditional love for the world as it is are promoted; so though difference the triumph of individuals, indeed with their fundamental differences, and of individualism.

Already in 1964, reviewing a crucial yet overlooked work by Gilbert Simondon, Deleuze clarified that difference is not about already formed individuals. Rather, there are processes of individuation, and these processes do not coincide with Being; they are “moments”, and none of them are a first moment. The notion of difference, erroneously confused with notions of quality and extension (of individuated bodies), concerns Being as an “intensive field” that is pre-individual and genetic. With reference to the words of Simondon, difference is combined with the concept – a fundamental one in thermodynamics – of “potential energy”. It thus becomes “difference in potential” which governs, accompanies and directs the (physical, biological and psychic) constitution of individuals. In the process of vital, biological and psychic individuation, the pre-individual “disparity” does not limit its “information”, like it does in the case of a stone or a crystal. The intensive field, real despite being not actual, carries on “working”, modifying – starting from the encounters, the compositions and the breakdown – bodies, affects and ideas.

In Deleuze the notion of difference, instead of relating to the notion of individual (so dear to the liberals, old and new), coincides with that of “singularity”. Being, despite not being individual, is singular. To be more precise, it coincides with a multiplicity of singularities, of potential differences that – in the words of Deleuze – “constitute individualities”.

Here, from an ontological perspective, a significant reference to Bergson is made. Certainly we are able to ban the gross simplifications constructed by neoliberals, who would like the concept of difference to serve the market and representative democracy, but not much else. It is not clear, in fact, why, by defining the notion of difference as productive singularity, Deleuze is also dealing with politics and conflict.

To understand this it is necessary to carefully study the works by Deleuze dedicated to Spinoza. Provided, clearly, one does

not confuse Spinoza with Plotinus. Always remembering, that is, that before Spinoza came Nicholas of Cusa, and, more importantly, Bruno’s materialism. By studying, not browsing through, these texts, we realize that the notion of singularity coincides with that of potentia. Spinoza’s potentia, the singular essence, is the conatus, the striving to preserve its being, pars intensiva of the infinite productive potency of God. To use a German word, often found in Leibniz and in Schelling and Marx, we can say that God (or Being or Nature) is Quelle, source. This source is always multiple, an infinite series of potencies, as infinite are the entities in which these potencies are expressed.

Potencies converge on the level of essence (in which they are “complicated”): but is this also true at the level of existence (in which they “explicate” themselves)? What is potency from the perspective of entities, of things thrown into existence? It is potency, always actual, of being affected, in the sense of suffering and of acting. Using a mathematical term often found in Deleuze, we can say that the potency of each “singular thing” is always a “differential relation” between passion and action. A relation, it must be clear, that stems from the conatus.

The passage from ontology to politics, and to conflict, can be grasped in a more distinct way when Deleuze, reading Spinoza’s Ethics, analyses the “finite modes”, the dynamics shaped by bodies and the patterns of passions. Spinoza’s “pessimism” – and, may I add, Deleuze’s pessimism – is beyond dispute: we are firstly passive, marked by inadequate ideas, dominated by imagination. Our potency is mainly the ability to suffer, sad passions (envy, vainglory, hate, jealousy, unrestrained ambition, etc.) that compress, tire the cupiditas (the human conatus). Nonetheless passions, always fluctuating and casual, are also joyful. Love, but also, more plainly, a food whose taste makes us content, a joke we cannot resist, a sunset with its unseen colours, the gentleness of a person’s features, the combination with an instrument that mitigates the strain caused by work: these are fortuitous encounters, joyful passions that increase our potency to exist and act.

If, however, we were only subject to chance, would we have politics, and what’s more, democracy? Evidently not, but the increase of joyful passions is the ethical premise to the common notions, in other words, to reason. Spinoza, Deleuze insists, presents a becoming-active – a becoming-adequate-cause of one’s own affects – that is entirely materialistic. Common notions are nothing more than joyful assemblies which have been conquered from the point of view of the cause, of necessity. Rules of combination, concentrations that are acted and not fortuitously suffered. And again: to speak of common notions means to speak of the increase, common and singular, of the potency to exist and to act (which is always potency to think). From sad passions to reason, from reason to the love of God as Nature, to the third kind of knowledge: the process of liberation never concerns individuals, rather, it is a transition – always reversible, antagonistic and polemical – from the ontological and ethic multiplicity to the multitudo, the social and political body of democracy. It is not possible to overlook the great attention given by Deleuze to the beatitudo and to part V of Spinoza’s Ethics. To experience our eternity, to become “purely expressive”, means to go from an adequate knowledge of relations to an adequate knowledge of singular essences. It is also clear that https://www.viagrasansordonnancefr.com/ in order to experience one’s pars intensiva, of the gradus of one’s potency, for Deleuze and for Spinoza, it is necessary to “become-revolutionary”, to actively compose one’s “rights” (which coincide with potencies), to build institutions which may conquer sad passions. Absolute democracy, in other words.

Through productive singularities, we rediscover Deleuze, once again, philosopher of conflict and of affirmation at the same time. It is a pity that not all are able to accept this combination. Indeed many would like to use the second horn, ontological and ethic, to cancel the first one, political and polemical. It is however necessary to continue telling the truth.

 

Francesco Raparelli – Esc, Atelier autogestito | CLAP

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